A che cosa serve Facebook
  1. A informarsi, ma questo è ovvio: soprattutto se si scelgono bene i propri amici, e in questo caso la lettura quotidiana dei giornali può venire serenamente sostituita da notizie e commenti di prima mano che i giornalisti selezionati (ma anche i politici, gli intellettuali, i professionisti…) pubblicano ogni giorno sulla loro bacheca.images
  2. A conoscere meglio le persone: la scrittura è forse il più potente strumento rivelatore per capire con chi si ha a che fare, anche perché sono poche le persone che la sanno usare; e quindi è facile che trapelino particolari altrimenti difficili da indagare.
  3. Ad avvicinare persone lontane, e ad allontanare persone vicine (vedi punto 2): riguardo a questo aspetto, ognuno avrà il suo variopinto repertorio di esperienze gioiose e dolorose.
  4. A fare una pausa, come al bar: o come alla macchina del caffè con i colleghi, per chi ha avuto esperienza di lavoro in azienda. È vero che si perde un po’ di tempo, ma spesso dopo si ricomincia l’attività con rinnovato ardore.

Sono solo alcuni dei tanti lati positivi riservati ai frequentatori di questo social network che ha cambiato le abitudini di tutti, riducendo di molto il tempo delle telefonate per esempio (basta una breve conversazione con i messaggi privati, e ci si aggiorna, o ci si dà appuntamento senza troppi convenevoli).
Ma invece che continuare la lista di cose buone e utili che Facebook è in grado di scatenare, preferisco elencare qualcuna delle innumerevoli occasioni virtuose che mi sono capitate in questi anni di frequentazione social:

  • recuperare persone care sperdute per le vie della città o per le strade del mondo (questa è facile)
  • organizzare un aperitivo o una cena con persone che si parlavano da tanto tempo senza mai vedersi in faccia, trovandole tutte interessanti e simpatiche (e poi magari con qualcuna frequentarsi)
  • fare amicizia con Anna, intelligente e simpatica vicina di casa con la quale abitavamo da 22 anni a 100 metri di distanza senza esserci mai viste e senza sapere di avere qualche storia in comune
  • andare alla presentazione di un libro con la sconosciuta Sara, perché abbiamo interessi simili (e questo succederà mercoledì prossimo)
  • conoscere e intervistare Mara, straordinaria VegaChef dalle mille risorse
  • scoprire che un signore speciale come Franco aveva un gatto grigio non sterilizzato, ideale per accoppiarsi con la mia giovane gattina in cerca di un fidanzato per fare i cuccioli
  • programmare un weekend al mare (o anche a Londra, vediamo) con Silvia, Elena e Maria Grazia (diventate care amiche perché tanto amiche di Stefania, che non c’è più)
  • ritrovarsi a cena dalla Emy (sempre grazie a Stefania) e incrociare sorprendenti affinità elettive
  • incontrare di persona una donna meravigliosa scrittrice come Fiorella, e tutti i suoi libri da leggere uno dopo l’altro

Devo continuare? Potrei. Invece preferisco concludere affermando “A che cosa non serve Facebook”: a sfogare i propri istinti malevoli, a piombare sulle bacheche altrui per provocare, a scrutare i profili degli altri senza mai farsi vedere, a rubacchiare idee e commenti per farsi belli con le piume del pavone, a polemizzare, ad aggredire chi non la pensa come te… in questi casi, mi spiace dirlo, è opportuno bannare: per una questione di igiene mentale. Io non volevo, all’inizio. Ma poi mi ha convinto che era giusto farlo la mia amica Tiziana, che forse non avrei mai neanche conosciuto se non ci fosse stato Fb. Questo è il senso.

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Altro che 8 marzo!

10959504_10153129067412608_2812934592422268557_nBasta la lettura di questo libro a scardinare per sempre tutta la retorica delle mimose che si è consumata per anni ad ogni angolo di strada, nelle pizzerie, nei finti salotti di convenienza politica quando Berlusconi era al Governo. Troppo facile. È tutto ben spiegato e raccontato da Ida Dominijanni, fino a qualche anno fa editorialista del Manifesto, e adesso research fellow alla Society for the Humanities di Ithaca, negli Stati Uniti. Le fa eco due giorni fa l’opinione di un’altra importante femminista storica come Lea Melandri su Internazionale in un post intitolato «Contro l’8 marzo» in cui afferma: “Oggi, di fronte ai rimasugli penosi che escono dalle radio, dalle televisioni e dai giornali, (…) ho un desiderio forte e deciso: che non se ne parli più; che nessuna data venga d’ora innanzi a fare da velo a uno dei rapporti di potere che oggi, molto più che in passato, appare scopertamente come la base di tutte le forme di dominio che la storia ha conosciuto, nella nostra come nelle altre civiltà;”.

 Il Trucco svela tanti aspetti non dibattuti dai media mainstream, primo tra tutti «il tentativo di restaurazione modernizzata dei ruoli sessuali tradizionali» che hanno caratterizzato tanto «il regime di godimento di Berlusconi» (godimento finto e dannoso, ndr), quanto «il regime del rigore dei successivi esperimenti di governo (e tantopiù l’oscillazione fra i due che sembra caratterizzare il governo Renzi)».

Vengono in mente le Ministre Carfagna, Gelmini. E poi Fornero, Cancellieri. Infine Boschi, Madia, Bonafè e tutte le deputate che sembrano recitare a memoria la parte nei talk show televisivi per rappresentare il Capo (il famoso capo carismatico di Marcuse? mah) di una supposta scena politica post-patriarcale sempre più uguale nella sua ingiustizia neoliberista, non morale, discriminatoria.

Ricordo di aver scritto qualcosa di simile per l’8 marzo di due anni fa in omaggio alla cara Isotta Gaeta, donna coraggiosa che ha per sempre un posto speciale nel mio cuore perché mi ha insegnato tanto. Evidentemente, non è cambiato niente. Per fortuna ci sono queste pensatrici, che rievocano la preziosa eredità «della politicizzazione del personale, dell’etica del desiderio, della rivoluzione dei ruoli sessuali, dell’affermazione del nesso fra sessualità e politica messe in campo dalle soggettività ribelli». Viva l’intelligenza, al femminile. E buona lettura.

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Agenzia Entrate Horror Show

The-Rocky-Horror-picture-show-05Questa volta ero sicura di avere tutto (moduli compilati, copia del pagamento in banca, fotocopia documenti, bolli e controbolli aggiuntivi) secondo le istruzioni dell’impiegato piacione che ho già descritto su Facebook l’altroieri raccontando la 1a puntata della mia avventura all’Agenzia delle Entrate di Milano. Quella di oggi è la 2a, e cioè La Vendetta. Perché quando arrivo, lo sportello della corsia riservata a chi deve registrare un contratto d’affitto è vuoto: non c’è nessuno, l’impiegato piacione scomparso. Essendo pieno orario di ricevimento del pubblico, chiedo lumi alle colleghe del bancone informazioni a fianco:
– Scusi, non c’è nessuno qui?
Nessuna risposta. Ripeto la domanda. Niente. Alzo il tono di voce: “SCUSI MI PUÒ RISPONDERE PERFAVORE, C’È QUALCUNO PER REGISTRARE UN CONTRATTO D’AFFITTO?”
– Signora, le rispondo quando dico io, non quando lo chiede lei (dice una delle tre addette alle prime informazioni al pubblico)
– COOOOSAAAA????? (rispondo aumentando i decibel al massimo per farmi sentire a quel punto da tutti gli altri astanti, in modo da creare un bel casus all’istante). Benissimo, mi dà il suo nome perfavore?
– Io non sono obbligata a darle nessun nome (mentre ogni impiegato di Ente Pubblico è tenuto a presentarsi su richiesta, tutti lo sanno).

respekt-und-achtung-fremdworte-der-heutigen-z-L-t4v_GPA questo punto esce dal bancone la sua collega, che chiude la corsia riservata alle registrazioni apostrofandomi: “Si metta qui davanti alla coda delle richieste generali, lì allo sportello riservato non c’è nessuno” (intanto giustificate proteste delle persone in coda da un bel pezzo).
Riapro con le mie mani la corsia riservata – rimettendo al loro posto i piedistalli legati dai nastri – , e intanto dico, sempre a voce alta “Mi faccia parlare con un suo superiore, perfavore”, ottenendo l’immediato consenso degli astanti. Poi aggiungo: “Io sto qui e non mi muovo. Se non arriva qualcuno, chiamo i Carabinieri”.

Indovinate chi arriva? L’impiegato piacione! che si giustifica: “Non ti arrabbiare, sono qui, avevo finito il turno…” e subito verifica che (trionfo!) sono in possesso di tutti i documenti necessari. Dunque posso aspettare la chiamata allo sportello 15, codice scontrino JA50. Evviva! Ma prima gli dico che voglio parlare con qualcuno dei piani alti per denunciare l’accaduto. AETenta di dissuadermi, non ci riesce. Alcuni astanti dicono che possono testimoniare. Compila un foglio (questo qui a fianco), mi chiede un documento d’identità che mi autorizza a essere ricevuta dal Capo Area Vincenzo Caserta, e sono consapevole del fatto che rischio di perdere il mio turno allo sportello 15, ma non demordo: vado al 2° piano, e segnalo le due impiegate che si comportano in un Ufficio Pubblico come se fosse la loro panetteria personale. Aggiungo alla fine un apprezzamento per la buona volontà dell’impiegato piacione (“Ah, il Santino!” si chiama così, mi dice il signor Caserta). Pare sia il migliore.

Quando torno giù in sala d’attesa vengo accolta dal consenso empatico degli astanti: “Brava!”, “Eh, è l’Italia…”, “Guardi che non ha perso il turno, perché io ero prima di lei”, “Certo che siamo proprio messi male…”. Siamo messi male perché nessuno si ribella, dico io; le addette al bancone del pubblico adesso forse ci penseranno due volte prima di abusare del loro squallido micropotere, no? Siamo tutti qui per pagare le tasse, e paghiamo anche i loro stipendi. Annuiscono. “Sì sì, ha fatto bene!”.

Insomma, il mio contratto d’affitto è registrato, mi sembra un miracolo. In più, ho lavorato in favore della collettività. Con la soddisfazione di uscire dall’Agenzia delle Entrate come da un film dell’orrore. Ero proprio felice.

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Sibilla come Cassandra

sibilla_aleramoNon è necessaria la diagnosi di follia, e neanche l’abuso di psicofarmaci, per trovare il coraggio di ammazzare moglie e figli. Forse basta semplicemente aver paura di riconoscere i propri fantasmi interiori, e sentirsi in diritto di sfogare i propri egocentrici istinti. Lo fanno molti uomini, e non le donne. Perché? Per spiegarlo non bastano i sociologhi: è una materia da psicoanalisti, abituati a scandagliare bene gli oscuri labirinti dell’animo umano.  Ma fa venire i brividi leggere quello che scriveva Sibilla Aleramo (oltre un secolo fa!) nel suo primo romanzo (molto autobiografico), con il quale entrò nel mondo della letteratura italiana e internazionale. Una frase a pagina 116 sembra quasi il commento alle gesta del pluriomicida di Motta Visconti che ha sgozzato la sua famiglia per un’incontenibile e incoercibile voglia di libertà. Programmando il suo delitto atroce con freddezza aliena. Così almeno hanno riferito le cronache.

UnaDonna3_low«Tra le due fasi della vita femminile, tra la vergine e la madre, sta un essere mostruoso, contro natura, creato da un bestiale egoismo maschile: e si vendica, inconsapevolmente. Qui è la crisi della lotta di sesso. La vergine ignara e sognante trova nello sposo un cuore triste e dei sensi inariditi; fatta donna ed esperta comprende come il suo amore sia stato prevenuto da una brutale iniziazione. Fra i due torna spesso l’intrusa, e il solo ricordo avvilisce ogni loro bacio.»

Sibilla Aleramo, Una donna (1906)

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Fragole & Marketing

fragoleUltimamente ho comprato tante fragole, che sono buone e fanno molto bene alla salute. Mi è capitato di comprarle al mercato e talvolta al supermercato (purtroppo) dove le prendo bio anche se costano quasi il doppio: ma le altre o sono spagnole (vade retro! è il Paese che usa le più alte percentuali di pesticidi e concimi chimici in agricoltura) o sono italiane ma sembrano di plastica e infatti non hanno nessun profumo. In ogni caso, bio o non bio, il giorno dopo erano già un po’ marcette, e quindi lo scarto quasi della metà. Poi ho provato invece a comprare fragole, sempre bio o non bio, provenienti da coltivazioni delle campagne vicino a Milano: strano vero? Non ci si penserebbe che intorno alla metropoli ci sono un sacco di realtà agricole che non chiederebbero di meglio di poter vendere i loro prodotti in città: ma non soltanto negli sporadici mercatini, che bisogna andare a pescare come alla lotteria nei posti e nei tempi più astrusi.

Questa cassetta di fragole, che ho preso ieri appunto in un posto astruso, stamattina inondava la cucina di un profumo che mi ha ricordato tempi antichi: oggi ci farò una bella macedonia (con succo di mela e foglie di menta, squisita!) poi magari anche un rapida marmellata da consumare nei prossimi giorni a colazione; vien proprio voglia di catturare le proprietà organolettiche che i frutti freschi possiedono, abituati come siamo a mangiare quelli che sembrano di plastica dopo aver fatto lunghi viaggi e soste in grandi magazzini dove vengono trattati o anche irradiati/aromatizzati/gasati per maturare artificialmente e poi mantenere la loro finta freschezza. Queste invece arrivano da Cassina de’ Pecchi, hinterland milanese verso est.

1010081_591846740897451_1801751416_nAllora mi chiedo: ma perché nessuno pensa di fare politiche agricole che facilitino il commercio dei buoni frutti della terra, in modo da creare distretti urbani e periurbani efficienti? Non ci vorrebbe molto. Perché non si è pensato, anche a livello locale, che Expo sarebbe stata l’occasione perfetta per costruire questa rete di relazioni economiche virtuose? La risposta non sta soltanto negli scandali di questi giorni per gli arresti dei responsabili Expo. 1896825_580354652046660_1126985515_nMa nella mancante volontà da parte dei nostri decisori pubblici di lasciare ai cittadini una Milano migliore, dopo un’inutile kermesse di grandi opere – a dir poco discutibili – che fin da ora si sta rivelando soltanto dannosa per la Città. E invece, quante belle cose si sarebbero potute fare spendendo molto meno.
(nelle foto: l’ExpoGate di piazza Castello
e la bara che dovrebbe essere un Ufficio Informazioni in piazza San Babila
)

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A passo di gambero?

previewSeguendo le turbolente cronache politiche di questi giorni (“Traditore!“, “Demagogo!“, “Bugiardo!”, ” Populista!“), e senza voler scomodare la pagliuzza/trave del Vangelo, mi è tornata in mente la poesia Della Gamberessa e sua figlia che la mia mamma mi recitava sempre quando ero piccola, facendomi tanto ridere. E ho scoperto che fu scritta addirittura nel 1700, da un certo Gasparo Gozzi: scrittore e letterato nato a Venezia in una nobile famiglia di origine friulano-dalmata, la cui specialità erano i ritratti satirici morali, e anche molti Sermoni in endecasillabi sciolti in cui «delinea con ironico anticonformismo diversi aspetti del costume contemporaneo», come dice Wikipedia.

Un costume che attraverso i secoli, dai tempi di Mozart e alla maniera di La Fontaine, oggi sembra ancora e più che mai di moda:

“Vede la gamberessa che sua figlia,
nel camminare, mal muove le piante,
ed in cambio d’andar col capo avante,
va con la coda, ond’ella la ripiglia
e dice: Oh che vegg’io! che maraviglia!
Cervellaccio balordo e stravagante,
va’ ritta innanzi: che fai tu, furfante?
Tu vai a rovescio? Di’, chi ti consiglia?

Ma la figlia rispose a’ detti suoi:
io sempre d’imitarvi ebbi desìo,
e non mi par che siam varie, tra noi.
Da voi appresi ogni costume mio;
andate ritta, se potete voi;
e cercherò di seguitarvi anch’io.”

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Il mio pavé

Lo scrivo, non lo scrivo (un post sul pavé), pensavo attraversando piazzale Baracca. Poi non vorrei che sembrasse un’invettiva contro la Giunta comunale (in questo caso la neoassessora Carmela Rozza), e non ho intenzione di fare polemiche su dinamiche di potere che non mi riguardano, anche se la gestione politica mi riguarda e mi interessa eccome: in qualità di milanese dalla nascita e grande sostenitrice della mia città in altre epoche più vivaci. Non negli ultimi vent’anni di mortificazione, ovvio. Ma dal 2011 la speranza si era riaccesa. Per fortuna.

Comunque il pavé milanese è sempre stato anche mio: fin da quando ero una bambina di Porta Lodovica e spesso percorrevo corso Italia con la mamma a piedi per andare in centro a “fare le commissioni”. 345gcq9Perciò l’altro giorno mi è venuto dal cuore di fotografare i lastroni rimossi, almeno per ricordo di un piazzale ottocentesco uguale da cent’anni, come mostra questa foto d’epoca (e da sempre anche bello verde, con i suoi giardinetti).
Tutti ammiriamo la pagina di FOTO MILANO SPARITA, comunità Fb con attualmente 57.724 Fan sempre in continuo aumento. voragineAdesso non mi spiego come possa succedere che un’assessora sia autorizzata a decidere che quella pavimentazione (tipica di Milano negli ultimi almeno 500 anni) venga smantellata così, sostituita da una sconfinata colata di asfalto (rosso! mi dicono) senza coscienza della responsabilità che l’intera Amministrazione pubblica si sta prendendo nel progetto di devastazione della città.

mucchioneIn nome di che cosa viene distrutto il pavé? dei costi di manutenzione? Ma la manutenzione dell’asfalto costerà ancora di più: non lo dico io, lo sanno e lo sostengono molti autorevoli addetti ai lavori, purtroppo neanche consultati. Qui Luca Beltrami Gadola il 20 luglio, per esempio.

Le biciclette, sento dire. Anch’io vado in bici, e so quanto spaventosi siano quei tratti di pavé con il binario subito lì a sinistra e il marciapiede a destra, buche comprese (tipo in corso Magenta): infatti in quei casi non esito a salire sul marciapiede, bici alla mano, piuttosto che rischiare la vita. Ma Milano non è mai stata una città molto friendly nei confronti dei due ruote, e non lo diventerà neanche così. Anche perché, volendo e ragionando magari insieme alla cittadinanza, si poteva pensare a qualche pista ciclabile in asfalto sulla destra, possibilmente con il cordone di protezione (le strisce non bastano, gli automobilisti non le rispettano). michelecarsoE poi, l’asfalto in piazzale Baracca e invece lo stesso pavé che sopravvive miracolosamente in via San Michele del Carso? (come si vede in questa foto). Qual è la logica urbanistica? Non si sa e non si capisce. Inoltre, che fine faranno i masselli? Mi dicono che hanno un grande valore…

Insomma attenzione, perché poi succede che gli anni passano e i fatti restano: “La fontana di Cairoli? se l’è presa Bettino; le brutte  fontane di San Babila che hanno stravolto la piazza? colpa di Formentini; gli scavi per i parcheggi sotto Sant’Ambrogio? follie della Giunta Moratti; quel pavé così antico e prezioso soppiantato da un volgare asfalto che si buca ogni anno? l’ha voluto Pisapia…” . Non vogliamo, vero?

Allora fermatevi, se siete ancora in tempo. Non solo ve lo chiede una ex bambina di città, una tra tante e tanti. Ma di sicuro anche i 57.724 e fischia iscritti alla pagina FOTO MILANO SPARITA e molte altre persone che vi stanno guardando. In questo caso, un po’ male.

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W l’Italia, W le tasse

Oggi giornata torrida di giugno scadenza pagamento tasse, arrivo trafelata alla mia banca per pagare l’F24 e l’Imu che la commercialista mi ha approntato (pago l’Imu 2a casa, una bella cifrona tipo oltre 1000 euro l’anno: abito in affitto, ma ho una casa più piccola che affitto a un inquilino grazie al quale pago l’affitto della mia casa, e quindi è come se fosse una prima casa: peccato che il copione normativo non preveda questo tipo di situazione, immagino abbastanza diffusa. pazienza). Arrivo all’una in banca e c’è un bel cartello: “Questa filiale dal 13 giugno chiude ogni giorno alle ore 13”, allora suono e mi fanno entrare. Niente da fare, la cassa è già stata chiusa. Se voglio posso andare in un’altra filiale, che invece fa orari convenzionali. Alla mia domanda “Ma scusate, non potevate mica avvertire i vostri correntisti via email, del cambiamento di orario?” le due impiegate mi hanno guardato come se stessi parlando del bosone di Higgs.

bpmSon saltata in macchina con l’orologio che faceva il conto alla rovescia (ottima metafora per la Banca Popolare di Milano di piazza Sicilia), ho raggiunto l’altra filiale in piazza Wagner, ho parcheggiato davanti, in divieto di sosta, temendo di prendermi anche la multa (ma invece no), sono entrata dieci minuti prima della chiusura e siccome c’era coda, il cassiere si è anche lamentato che era tardi, e che se tutti facessero così.. Per vendetta gli ho fatto perdere ulteriore tempo raccontandogli la dolorosa historia, ha detto che sì, in effetti i clienti li può avvisare soltanto la Sede centrale, e che però non essendo sua specifica competenza…

Comunque le tasse sono riuscita a pagarle, in barba a tutti i disservizi 2.0 del mondo, felice di essermi tolta il pensiero: le ho versate tutte fino all’ultima lira come faccio da circa 30 anni a questa parte, a dispetto invece della moltitudine di italiani evasori in mille modi diversi. Ho pagato anche la mia Imu 2a casa, doppiamente iniqua: quella però, devo ammetterlo, sarei stata ancora più felice di non pagarla.

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In Bicocca fermare il femminicidio si può

In Gran Bretagna si è pensato che prevenire sia meglio che curare, e i risultati si vedono: a Londra si è passati da 49 femminicidi nel 2003 a soltanto 5 vittime della violenza domestica nel 2010. Come? scotland2Con il metodo Scotland, ovvero il piano stilato dalla baronessa Patricia Scotland, ex Guardasigilli del governo laburista ed ora membro della Camera dei Lord, fondatrice del Global Foundation for the Elimination of Domestic Violence (EDV). A chi deve interessare questo risultato? A tutti, uomini e donne, ma soprattutto ai nuovi politici che si accingono a governare dopo le elezioni. I quali, tutti, devono studiare: per capire come si affronta e si risolve questo tragico fenomeno italiano (120 vittime nel 2012!).

bicoccaDunque, un invito: fiondarsi alla Bicocca, perché «Patricia Scotland sarà nella nostra Università per parlare del suo modello anti-violenza e per trovare con noi la soluzione più adatta all’Italia», annuncia in questa intervista Marina Calloni, docente di Filosofia Politica e Sociale dell’Ateneo. E in questo video ci spiega che il metodo Scotland è un modello olistico: come dire, servono politiche adeguate e integrate a più livelli; devono essere coinvolte tutte le istituzioni, i politici, e anche – novità del metodo Scotland – i datori di lavoro. Qui il comunicato dell’evento del 31 maggio, con tutte le indicazioni.

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Ma quale pensione?

Premesso che non ho mai pensato alla pensione in termini esistenziali, e che per fortuna ho fatto tesoro di preziosi insegnamenti per vivere la vita cercando di fare buone cose nel presente: pensionecompresa una consulente fiscale che vent’anni fa, quando presentai le dimissioni dalla grande azienda editoriale per cui lavoravo, mi disse “Non versi nessun contributo volontario, perché quando lei arriverà all’età della pensione non ci saranno più le pensioni, e questi soldi non glieli restiturà più nessuno. Piuttosto, amministri bene i suoi risparmi e la liquidazione”. Erano gli anni ’90, quindi oggi possiamo dire che già da allora si sapeva che cosa sarebbe successo. Padre-JhonBNDunque mi ero organizzata, felice della mia professione di freelance, con un figlio piccolo che non andava ancora all’asilo. Tutto bene? No, perché comunque i miei 11 anni di contributi li ho buttati al vento, nelle casse di uno Stato che non è stato degno di questo nome (e con la riforma Fornero le donne sono state poi ulteriormente danneggiate rispetto agli uomini: in assoluto, le più penalizzate d’Europa).
Però ho fatto bene a “non pensare alla pensione”, come consigliava sempre ai suoi discepoli un certo maestro spirituale (grande amico un po’ eretico del Cardinal Martini) che non è più tra noi, ma che mi porto sempre nel cuore. Perché secondo i dati Ocse di qualche giorno fa sulle disuguaglianze in Italia, su 18 milioni di pensionati, 11,6 milioni ricevono una pensione media di 533 euro e soltanto 2 milioni ricevono una media di 2900 euro: come dire che spendiamo la stessa cifra per queste due categorie. Le sperequazioni del sistema contributivo hanno privilegiato chi è riuscito a scappare prima dal mondo del lavoro grazie al generoso regime retributivo (che ha assicurato pensioni superiori di quelle che le stesse persone avrebbero meritato con il il sistema contributivo), e adesso la società italiana non sta più in piedi. Che fare? Magari ci fosse stato Lenin al posto di Monti: un pensiero di socialdemocrazia invece che il lugubre tecnicismo finanziario. 251602_473618746024666_253722116_nPer fortuna però qualcuno che sa pensare ancora c’è: Emanuele Ferragina, ricercatore catanzarese espatriato che insegna Politiche sociali a Oxford, ha appena pubblicato il libro Chi troppo chi niente, in cui approfondisce la portata di tali inquità nel tentativo di trovare possibili soluzioni. Nella tabella di pagina 101 ci mostra un dato ancora più raccapricciante: disaggregando il dato di quei 2 milioni che ricevono in media 2900 euro, si scopre che 1 milione e mezzo sono maschi che percepiscono oltre 3000 euro al mese di pensione. Si conferma quindi un’esagerata discriminazione di genere, proporzionale e coerente con la subalternità del lavoro femminile che è uno dei più grossi problemi sociali in Italia, e non negli altri Paesi europei (come sancisce il Global Gender Gap Report 2012).
Qui un’intervista in cui Emanuele Ferragina prospetta in base alle sue competenze qual è l’unica soluzione: un ribilanciamento del sistema di welfare per traghettare risorse dalle pensioni più anziane verso il reddito mancante alle prossime generazioni.

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